La guerra dei tupper
Ci sono diversi tipi di status symbol, di modi per ostentare la propria ricchezza o far emergere la propria personalità dalla mediocrità. Per qualcuno può trattarsi di una macchina da pappone con cui sperare di essere notato da una donna, per altri di una casa dal design minimalista piena di vinili e stampe d’epoca dove invitare gli amici a bere un bicchiere di ottimo vino, per altri ancora di vestiti firmati da sfoggiare con il logo ben in evidenza…per chi invece dichiara di disdegnare l’apparenza e fuggire dal materialismo potrebbero ad esempio funzionare benissimo come biglietto da visita degli articoli irriverenti, sponsorizzati ad hoc su Facebook, di un blog molto più controcorrente del mio. A Barcellona, tra le tante cose, va di moda avere una bicicletta; una bicicletta seria intendo. Quelle come me che ne hanno una a noleggio scassata che quando si muove fa lo stesso rumore di un jet che scalda i motori, non sono nessuno. Se poi sei gay, o hipster, o magari skater leggermente attempato, e non possiedi una bici allora sei davvero fuori dai giochi.
Nel mio ufficio invece, le cose funzionano diversamente. Lo status symbol da noi è il tupper. La schiscetta, il portavivande, il lunchbox, chiamatelo come vi pare, è quella confezione contenente robaccia che ci si porta da casa per poi consumarla frugalmente senza un briciolo di passione durante la breve pausa pranzo. Potrebbe sembrare un ossimoro chiamarlo status symbol, perchè il tupper più che rappresentare la ricchezza è qualcosa di opposto, di proletario, di un po’ sfigato; sinonimo di gente che la sera sta a spadellare (partorendo cose incredibili, che generalmente puzzano un sacco e hanno poco sugo e sapore, diciamolo) per non doversi procacciare del cibo il giorno successivo e non sforare dal risicato budget mensile. Ma è proprio questo il punto: ingegnarsi per non spendere nemmeno un centesimo fa figo. Il che mi starebbe anche bene, per carità sono una morta di fame e accetto di buon grado tutto quanto sia gratuito. Se non fosse per un paio di trascurabili dettagli: la qualità del cibo mortalmente offesa da questi contenitori in plastica che ne sviliscono il potere sensoriale e conviviale e la curiosità morbosa scatenata dal voler a tutti i costi sapere cosa si cela dietro quel fortino pieno di alimenti quasi sicuramente scadenti del tuo vicino di tavolo. Innescando una catena di fastidiose domande che vanno dal più banale che cos’è al più insolente io l’avrei cucinato in un altro modo fino all’ossessione tutta femminile del sapere quante calorie stai ingurgitando. Ah, dimenticavo, manca la competizione. Perchè il mio tupper deve essere migliore del tuo: più sano, più sfizioso, più completo…questa non è una pausa pranzo, è una guerra all’ultimo sangue. Dopo 30 minuti di questo calvario, potresti essere sfinito più che dopo una sessione di spinning.
Non so, saranno tutti questi odori che fuoriescono dai microonde della sala mensa dell’ufficio, ma io mi sento soffocare. Sono una ribelle lo ammetto: rinuncio a tutti i benefici derivanti dall’essere membro della setta del tupper, spendo i miei soldi inutilmente finendo sul lastrico, rovino la mia salute nutrendomi di menù spazzatura per lavoratori indolenti che la sera all’impiattare della pasta scotta da mangiare 24 ore dopo preferiscono uscire a bere, accetto la gogna mediatica ma vi prego, ora fatemi uscire da qui e ridatemi, subito, il buon vecchio panino con la tortilla. Un evergreen che non passa mai di moda.
Geniale!!!!
La ribellione è iniziata!
Fantastico! E la ragione per quella ho cambiato per le zuppe cinesi questa settimana!
Adoro le tue zuppe!
Ma poi quanto sono odiosi da lavare?? Sembra che rimangano sempre unti… Fastidio!
hahahaha esatto! E l’odore nel microonde del tupper prima del tuo? Sembra che si appiccichi addosso anche al tuo pranzo!