Il topo

È una bella sera d’estate, il cielo è ancora chiaro ma in lontananza il Tibidabo è già incorniciato da striature arancioni e violetta, segno che il sole sta per scomparire. Ci sono parecchie nuvole, non minacciose, ma comunque dense, biancastre, che corrono veloci e preannunciano una variabilità meteorologica che nessuno dei presenti auspicava, per quella serata.

Sono in un giardino romantico, pieno di fiori e piante e muretti che affacciano sulla città. Per l’occasione, quei bei giardini sono stati resi accessibili solo ai possessori di biglietto per lo spettacolo, che comincerà alle 22. Manca ancora parecchio all’inizio, ma una discreta folla si aggira già nello spazio verde, alla ricerca di un tavolino dove poter fare due chiacchiere e bere una cosa per ingannare l’attesa. 

La mia amica è arrivata con qualche minuto di ritardo; trafelata, come sempre, con quel suo modo peculiare di camminare, un po’ da pagliaccio. Del resto, lei fa circo, è una specialista delle corde, e la persona più agile e impegnata a far diventare la sua passione un lavoro che io conosca. Ha dei capelli stupendi, neri, folti, lunghissimi, li porta semi raccolti in un codino sulla sommità del capo, che le dà un’aria anni ‘80 molto intrigante. Alle orecchie ha degli anelli d’oro e al collo tante collanine anch’esse d’oro, molto luminose, penso che alcune potrebbero essere ricordi della nonna, o della mamma. È un’appassionata di abbigliamento vintage, ha uno stile tutto suo in cui spiccano le giacche con le spalline, i maglioni con stampe eccentriche e le minigonne, spesso di pelle. Quel giorno fa molto caldo, indossa una canottiera color carne e dei pantaloni rossi, ha uno zainetto appoggiato solo ad una spalla. 

La trovo sexy, non lo ammetterei mai con nessuno, ma è così. A volte le donne mi attraggono, e lei è una di quelle persone che sprigiona una forte energia sessuale, pur non assumendo mai nessun atteggiamento minimamente ammiccante o sensuale. Forse, pensandoci, è proprio questo che mi piace di lei. Risponde al cliché dell’Albachiara che cammina per strada mangiando una mela, è immersa nei suoi pensieri e non si rende conto che tutti la desiderano.

Decidiamo di andare ad ordinare un bicchiere di vino bianco molto freddo – nonostante l’ora, l’afa non da tregua e rende tutto appiccicoso – e ci sediamo per berlo tranquillamente su un muretto che costeggia una scalinata. È un po’ che non ci vediamo, ma invece di raccontarci le ultime notizie non so come mai ci mettiamo a parlare di sorelle. Lei mi racconta che è da poco che ha recuperato il rapporto con la sua, che non si sono parlate per anni perché lei aveva fatto cose che non avrebbe dovuto fare. Anche se ora la sorella è più equilibrata e matura, la famiglia è preoccupata per lei, perché sta ingrassando a vista d’occhio e la cosa è percepita da tutti come un grande rischio per la sua salute. La sorella va quindi aiutata, il prima possibile, ad aprire gli occhi sui problemi dell’essere sovrappeso.

La lascio parlare, si vede che ha voglia di sfogarsi e probabilmente non è un tema di cui parla spesso. Anche io le dico che con mia sorella ho avuto degli alti e bassi, e che ho un po’ di rancore nei suoi confronti perché penso che i miei le abbiano sempre riservato un trattamento di favore, soprattutto mia mamma. A me invece, mia madre non ha mai fatto sconti. Qualche settimana fa le ho regalato un disegno a acquarello, rappresentava una foto molto tenera in cui lei mi teneva in braccio da piccola, e io le mettevo la manina in bocca. Non era certo un capolavoro, anzi era un disegno molto mediocre, ma la sua reazione quando gliel’ho dato è stata così tiepida che mi ha obbligato a trovare velocemente qualcos’altro di cui parlare, per levare di mezzo l’imbarazzo. 

Ho appena acceso una sigaretta mentre ascolto la mia amica che parla, quando all’improvviso da un buco nel muretto dall’altro lato della scalinata sbuca fuori un topone che pare in fuga da qualcosa, sembra terrorizzato, e in men che non si dica, in due salti (chi lo sapeva che i topi possono saltare?) atterra sulle gambe della mia amica e poi sulle mie, prima di scappare giù per le scale come una saetta. L’ho visto uscire da quel lurido buco nero, ci siamo guardati per una frazione di secondo, ma tutto è stato talmente veloce che non ho avuto il tempo di spostarmi, o meglio ci ho provato goffamente mentre gridavo come un’ossessa, ma era impossibile prevedere quale sarebbe stata la direzione del salto del topo, e così il mio corpo non ha saputo cosa farsene della prontezza di riflessi. Mi sono sentita come un portiere che, da quando il calciatore tira il rigore, ha solo qualche attimo per decidere se muoversi a destra o a sinistra per pararlo.

Non mi aveva mai toccato un topo, nemmeno nelle megalopoli indiane, nemmeno quando in Birmania avevo dormito in una baracca sotto un cavalcavia, nemmeno nei peggiori vicoli del Raval. Mi sento schifosa, tutte le storie sulla sporcizia dei topi e sulle malattie di cui sono portatori cominciano ad affollare la mia testa, percepisco per un momento quella sensazione di testa vuota che mi prende quando l’ansia ha la meglio sulla ragione. 

Io e la mia amica ci guardiamo, ancora incredule, senza sapere cosa dire, mentre le altre persone intorno a noi sembrano non dare un gran peso alla cosa. Forse addirittura credono che siamo delle  isteriche, delle esagerate, e che abbiamo rovinato l’atmosfera di quella splendida serata. Una signora vicino a noi commenta: dobbiamo abituarci a convivere con i topi, nel futuro sarà così. Ma convivici tu con quegli esseri orribili, maledetta e inopportuna signora dai capelli grigio topo. Costruisci un bell’allevamento di topi e porta tutti quelli che assediano la città nel tuo giardino, poi la sera accarezzali e goditi la bellezza di quel contatto ispido.

Chiedo all’amica: sei superstiziosa? Lei mi dice di no. Io invece un po’ lo sono, so che quello non è un buon presagio. Da quel momento, la serata è un crescendo di problemi: la pioggia, lo spettacolo rimandato di un’ora e poi cominciato tre volte e altrettante sospeso per colpa del tempo ballerino. Alla fine, diventa chiaro a tutti che quello che era stato annunciato come lo show di punta di tutto il festival non si farà, e una folla delusa si riversa fuori dai giardini alla ricerca di un mezzo di trasporto. Naturalmente, non ci sono taxi, e io devo camminare per più di un’ora nella notte barcellonese umida e puzzolente per tornare a casa, riuscendo a pensare solo a una metamorfosi kafkiana in chiave roditoresca.

La notte mi rigiro nel letto senza poter dormire, troppi pensieri, troppi deliri su un mondo distopico governato dai topi. Ma quando il mattino dopo racconto a Lia quello che mi è successo la sera prima, lei adora talmente tanto la storia e la trova così divertente che decido che quell’incontro ravvicinato merita di occupare dello spazio su un foglio bianco.